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curriculum

Luisa Figini - 1954 

STUDI ARTISTICI

1981– 83 École des Beaux-Arts, Bourges, (F)
1998– 2002 Haute École d’art et Design, Genève
2008– 2009 Master universitario di II livello in: “Metodologia della Ricerca in Educazione”, Università di Rovereto-Trento (I).

Cresciuta nel Mendrisiotto, si forma all’Ecole des beaux-arts di Bourges, in Francia, con Jacqueline Lerat (1981-83). Si perfeziona in seguito alla Haute école d’art et design di Ginevra (1998-2002), dove lavora, fra gli altri, con Carmen Perrin e dove le viene conferito, tra il 2004 e il 2007, un mandato di artista invitata.

Del 1989 è l’incontro con Rolando Raggenbass: un dialogo profondo e di grande forza creativa si stabilisce fra i due artisti. Nel 1994 e nel 1998 compie soggiorni di lavoro in Lituania, dove ottiene due riconoscimenti nell’ambito del Panevezys International Art Symposium. Riceve premi anche a Lugano (Premio RSI, 2002) e a Ginevra (Prix du jury, 17e Biennale de l’Association des céramistes suisses, Musée Ariana, 1993; Fonds cantonal d’art contemporain, 2003).

Dal 2002 al 2014 insegna all’Alta Scuola Pedagogica, poi DFA-SUPSI a Locarno; dal 2012 al 2019 al CSIA (Centro Scolastico Industrie Artistiche) a Lugano. Espone con regolarità in Svizzera e all’estero a partire dal 1985: le personali più recenti risalgono al 2002 (Musée jurassien des arts di Moutier), al 2004 (Museo cantonale d’arte di Lugano) e al 2015 (Museo Vela di Ligornetto).

Il lavoro di Luisa Figini, caratterizzato da un rapporto intimo con la materia e da sperimentazioni con diversi media, si articola attorno a tre assiomi fondamentali: l’oggetto, il corpo, la relazione. Le prime esperienze scultoree si esplicitano in un legame passionale con la materia e con l’atto che la plasma: le terre cotte, il filo metallico, le garze, la fibra di vetro danno origine a forme concave, convesse o spaccate da fessure che lasciano percepire un «dentro», un’intimità misteriosa ma protettiva, si caricano di allusioni e scandiscono o accolgono lo spazio come presenze arcaiche ed evocative (Racconti di un traghettatore, 1991, Lugano, Fondo comunale Carlo Cotti; Porta di vento, 1992-93, Bellinzona, Museo Villa dei Cedri).

Dalla metà degli anni ’90 combinazioni di materiali organici e inorganici (capelli, vesciche e intestini animali, cera, reti di fibra sintetica) si sviluppano in installazioni di forte impatto sensoriale ma al tempo stesso delicate: stimoli tattili, visivi, olfattivi si intrecciano fra rimandi a una vita larvale, o in germinazione, e materia morta, inerte.

L’installazione e la performance Pour une peau presso il Monte Verità di Ascona e l’Ancienne usine Kugler di Ginevra (1999), i cui protagonisti agiscono avvolti in membrane di pelle animale, sintetizza il lavoro precedente e nella tensione fra isolamento, asfissia, protezione e possibilità osmotiche sancisce il passaggio dall’oggetto alla relazione. Il corpo, fulcro in metamorfosi, si va «scorporando» e assume altre valenze nell’utilizzo di nuovi media audio e video: da esperienza metabolica espressa nella sua organicità diviene involucro antropomorfo, allusivo, per trasformarsi poi in entità semantica.

Voci disincarnate di coppie raccontano il loro primo sguardo sull’altro (E in quella fatidica ultima estate..., 2000), corpi «senza voce» invitano a riflettere sul linguaggio dei segni utilizzato dai non-udenti (La bouche dans la main, 2002-03), mentre Sonar (2006- 07), realizzato nella piscina fisioterapica dell’ospedale psichiatrico di Ginevra, mette in scena su schermi filtrati da un vetro corpi in ripresa subacquea, acefali e privi di identità: membra che danzano in un acquario ed evocano insieme leggerezza e limite, soffocamento e joie de vivre. La ricerca si traduce dunque in un discorso che non è analisi di patologie, bensì esplorazione multimediale di universi semiotici, anatomia della comunicazione nella sua essenza e primordialità.

I lavori successivi ribadiscono questa impostazione e la declinano in esiti multiformi. Con Bagaglio a mano (2014), installazione imperniata sul tema di un possibile corredo funerario contemporaneo, si approda a un universo semantico in cui il rapporto fra significante e significato slitta, si dilata; l’oggetto si rivela lemma di un vocabolario della perdita che da vissuto individuale si fa dimensione poetica, esperienza esistenziale.
In un percorso incentrato sull’essere umano come entità biologica, sociale ed emozionale, articolato attorno alla comunicazione e alla relazione come condizioni stesse dell’esistere, la lunga indagine sul sonno, avviata dall’artista nel 2011, introduce una riflessione sulla poesia come luogo ultimo di ritorno a un centro, a un assoluto. Sonno (2012) è una videoinstallazione realizzata in collaborazione con il Laboratoire du sommeil dell’ospedale universitario di Ginevra: frasi estrapolate dai racconti dei pazienti, ma anche parole di scrittori e poeti, assumono valenza di versi enigmatici e ritmano immagini di dormienti irrequieti che si rigirano, respirano, ansimano, russano nei loro letti. Lo spettatore è immerso in una cornice ospedaliera che trasmette una sottile inquietudine, fra i rumori naturali (e innaturali) di un sonno che non si svela mai del tutto e delle macchine che tentano di carpirne i segreti. Spaesante è la dimensione estetica: i corpi addormentati, avvolti dalle lenzuola, alludono a sculture classiche dai panneggi morbidi e sprigionano, nel freddo ambiente clinico, una bellezza antica che trascende l’esperienza scientifica.

La videoinstallazione Alba (2015) mette in scena, con dolcezza ludica e insieme di lieve minaccia, il sogno che precede il risveglio. Fra indagine sistematica e delicata introspezione, in un mondo ormai sempre più a-poetico, la poesia si rivela essere non solo forma di comunicazione trasgressiva, ma forma più alta di consapevolezza.

Paola Tedeschi-Pellanda, 2016